Appartenenza

 Nella casa nella foresta. Ho lasciato andare il tempo, non mi sono quasi chiesta quanto tempo ancora? Quanto tempo é passato? Ho seguito il flusso della vita.

Stamattina mi hanno svegliato le ragazze, ho spento la sveglia, ho pensato che mi sarei alzata e sono ripiombata in un sonno profondo. Quando sono uscita dalla camera, ancora dotata di armatuta ho fatto un veloce saluto, gli occhi ancora semi chiusi. Topon, il vice coordinatore, mi ha portato un caffè sorridendo: Your medicine. 

Come ogni mattina noi cinque abbiamo fatto colazione e un piccolo programma della giornata, chi fa cosa, domani é il compleanno di Riccardo, come la facciamo la pizza? E la stampante 3d? Mattia devi vedere ancora qualcosa?

Un piccolo passaggio sui comportamenti che abbiamo osservato la sera precedente, qualche riflessione, Pier che mi prende un po’ in giro per il mio animo zingaro e via…la sala si riempie di bambine, bambini, ragazzi e ragazze. Si chiacchiera tutti insieme, qualcuno inizia a chiedere il “good Night biscuit”, i tre piccoli ci saltano in braccio, intonano Bella ciao. Le ragazze ci intrecciano i capelli, i ragazzi chiedono conferma circa la partita di calcio del pomeriggio. Una grande e rumorosa famiglia. Io non capisco quasi più in che lingua parlare, salto dall’italiano all’inglese al tentativo di costruire piccole frasi in bengalese. Finisce che non sono comprensibile in nessuna lingua, va bene, in qualche modo ci capiamo sempre. Pier talvolta mi parla in bengalese, poi mi guarda e ride. 

Le risate accompagnano le nostre giornate. Con i bambini, tra di noi. La sera quando io e Giada ci troviamo a gestire un piano scoppiato, con le casse che vanno ad altissimo volume e i piccoli che cercano di rubarci qualsiasi cosa. Quando Amamoon e Ayan, cinque anni a testa, si mettono a ballare sul tavolo ripetendo “Ciao amore, ciao amore, ciao amore, ciao”. 

Mi sento protetta, protetta nel mondo come quando senti di appartenere a qualcosa. 

Riccardo ha costruito queste case per dare ai Tokai una casa paterna, l’intenzione primaria non è emanciparli dalla povertà, ma fornire un luogo sicuro in modo che possano dirsi “io vengo da lì, e li posso sempre tornare”.


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