Clacson e Dacca

 È la nostra ultima sera con Denise e Gaetano in questa prima tappa del viaggio. 

Mattia finalmente sembra stare un po’ meglio: è come se, lentamente, si stesse ricomponendo il nostro piccolo gruppo, quel pezzettino mancante che aspettavamo per sentirci davvero completi. Sappiamo che stanno arrivando cinque ragazze, le Tokai di padre Riccardo. Tra loro c’è anche Sara, l’ultima che lui ha adottato quando aveva un anno e mezzo: ora ne ha otto, e porta con sé una dolcezza silenziosa che ti entra subito nel cuore.

Dopo una doccia rilassante scendo al piano di sotto e le trovo già arrivate. Sono tutte raccolte attorno a Evita, ridono e parlano tra loro in inglese, leggere, spensierate. Appena mi vedono, succede qualcosa che non mi aspettavo: una ragazza mi corre incontro e mi abbraccia. Si chiama Farzana, scopro poi che ha diciotto anni. Il suo gesto spontaneo, così naturale e sincero, mi scalda il cuore. È un calore umano che non mi aspettavo di trovare così, all’improvviso.

All’inizio le vedo guardarmi con curiosità e un pizzico di meraviglia. Mi fanno i complimenti per il vestito—quel vestito che avevo comprato poche ore prima al mercato e che non vedevo l’ora di indossare. È buffo, ma infilarmelo mi aveva fatto sentire un po’ più parte di questo luogo, come se stessi cercando di avvicinarmi, di farmi accogliere da una cultura che sento già di amare.

Dopo cena iniziamo a scegliere i braccialetti che due delle ragazze producono nell’azienda di Denise, utilizzando tessuti locali. Con le loro mani sottili e precise hanno messo in piedi un piccolo business, un modo per sostenersi e valorizzare il loro talento. La sorella di Rubina, Farzana insiste nel dirmi che, se volessi, può spedirmene altri in Italia: prende le misure, annota la forma, e noto nei suoi occhi una soddisfazione semplice ma intensa. È orgogliosa di ciò che crea. E ha ragione.

Rimaniamo un po’ a tavola. Guardo Denise che parla con le ragazze e coccola la piccola Sara, cercando di farla ridere. Nei suoi occhi brilla un amore profondo, quasi materno. È difficile non commuoversi sapendo che quella bambina porta ancora addosso i segni delle violenze subite. Eppure, in quel momento, tra le braccia di Denise, sembra solo una bambina serena che ride come tutte le altre.

Verso le dieci ci salutiamo e ci incamminiamo verso l’alloggio dove ci aspettano padre Pier e l’équipe medica arrivata nel pomeriggio. È già fuori dalla porta, immobile, con la sua polo blu che scopro essere una sorta di “divisa non ufficiale” che lo accompagna sempre. Prima di andare a dormire ci sediamo a programmare le giornate che verranno, consapevoli che ci attende un ritmo intenso.

Quando saliamo in camera, il traffico di Dacca ci investe come un’onda continua. Clacson, motori, voci… qui la vita sembra non fermarsi mai. E capisco perché questa città è tra le più inquinate al mondo: anche la notte vibra, pulsa, respira in modo frenetico.

Cerchiamo di dormire, ma il rumore è così costante che sembra impossibile. Ci giriamo, borbottiamo contro il traffico e contro gli autisti, un po’ divertite e un po’ disperate. A un certo punto mi viene un’idea ironica:

«E se al posto delle pecore provassimo a contare i clacson?»

Invito Evita a provarci insieme. Rido mentre lo dico, pensando che è assurdo… e invece funziona.
Funziona davvero.

Giada

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