Dove troverete riparo questa notte??
Ci svegliamo all’alba. Un Nescafé e attendiamo padre Carlos per partire verso Khulna.
Uscire da Dhaka senza restare intrappolati nel traffico sembra quasi un miracolo, ma l’orario scelto ci salva. Nonostante la stanchezza, la curiosità vince sul sonno: restare sveglia e osservare ogni angolo di vita che scorre fuori dal finestrino è quasi un bisogno.
La strada è un fiume in movimento. Tre ruote che sfrecciano, risciò elettrici carichi di cibo o attrezzi da lavoro, motociclette che zigzagano come fossero parte di una danza. Ai lati della strada si susseguono graffiti colorati, nati dopo il colpo di stato di quest’estate. I primi bazar iniziano ad aprire; i cani randagi dormono ai lati della strada o cercano qualcosa da mangiare tra la spazzatura. E così riesfo a vedere l’alba spuntare sopra il Gange.
A metà tragitto ci fermiamo in un autogrill. Nessuno sembra troppo sorpreso di vedere tre occidentali: forse perché quel posto è un punto di passaggio. Sono quasi tutti uomini. Mangiamo la colazione tipica: uovo, roti e Nescafé. Semplice, buona.
Arriviamo finalmente a Khulna, dopo tre ore e mezza di viaggio. Ci sistemiamo nelle stanze della sede dei padri saveriani. Evita ci accompagna nel giardino, orgogliosa di mostrarci piante, fiori e… le manguste. Ne vediamo due correre tra i cespugli.
Il giardino ha anche un piccolo cimitero. C’è la tomba di Riccardo. Davanti alla sua foto sento un’atmosfera intensa, quasi mistica. La sua immagine trasmette calore, e tra i suoni della natura mi invade una pace profonda.
Il pranzo viene annunciato da una campana. A tavola c’è anche una dottoressa italiana che resterà due mesi come volontaria. Tra qualche giorno entrerà nella foresta. Ridiamo dell’idea che possa incontrare una tigre: la preoccupa, i saveriani ci scherzano con la loro solita ironia.
Alle 14 partiamo per il centro diurno, il luogo che accoglie i bambini di strada: lì possono trovare sicurezza, cibo e un po’ di istruzione. La sera, una volta usciti, tornano comunque a cercare un riparo dove dormire. Andiamo con un tre ruote. È la mia prima volta: sento una miscela di trepidazione e agitazione. Khulna appare più tranquilla di Dhaka, ma la vita è ovunque. Caprette, mucche e cani attingono alla spazzatura. Le persone ci guardano: più curiosità che giudizio.
Alla stazione ci copriamo il capo: gli sguardi aumentano. Seguiamo Pier che cammina veloce tra buche, marciapiedi rotti e bambini che si muovono da soli come fossero piccoli adulti. Uno, completamente nudo, avrà forse due anni. Si aggira tra le bancarelle con una naturalezza spiazzante.
Appena imbocchiamo la via del centro diurno, Pier dice: “Ci hanno visti.”
In un istante una trentina di bambini ci corre incontro. Abbracciano Pier, poi si dirigono verso di noi, ci abbracciano, ripetono “welcome” e ci mettono al collo collane di fiori. I loro occhi sono la prima cosa che mi colpisce: scuri, profondi, pieni di una umanità che non avevo mai incontrato.
Mi chiedo cosa abbiano visto, cosa abbiano già attraversato nella loro breve vita.
Sono felici della nostra presenza. Ci accolgono con danze: uno alla volta, ordinati, rispettosi. Nessun litigio, nessuna rivalità. Il gruppo sembra un porto sicuro: ognuno sostiene l’altro, ognuno celebra la danza del compagno.
C’è un vero senso di comunità.
Il centro è gestito da un tokai cresciuto: un ragazzo di Riccardo, oggi adulto, che lavora accanto a sua moglie per i bambini che hanno vissuto la sua stessa strada.
Durante la merenda mangiamo tutti un gelato. I bambini vengono uno dopo l’altro a chiedermi di mordere un po’ del loro. Capisco che dividere il cibo per loro è un gesto prezioso, un modo per dirti “grazie”, per includerti.
Passiamo poi nel giardino: tante caprette, giochi semplici, pongo che si modella in mille forme. Mi insegnano i loro saluti, io insegno i nostri. Alcuni usano il dischetto del cono del gelato come un frisbee, altri fanno palline di pongo che si scambiano, altri ancora giocano sul prato tirandosi per i vestiti proprio come fanno i cuccioli.
Andiamo poi da Mattia che gioca a calcio con i ragazzi. Il campo è solo un grande pezzo di terra, condiviso con gruppetti che giocano a cricket, si arrampicano, o evitano le mucche che cercano un po di erba.
Quando rientriamo è ora di salutarli.
Li guardo, uno per uno, e nella mia testa resta una domanda:dove dormirete stanotte?
Durante il viaggio di ritorno Pier ci racconta che con l’arrivo del freddo alcuni bambini hanno iniziato a chiedere di poter dormire nel centro. Stanno cercando di trovare spazio. E mentre lo ascolto, ripenso a quella trentina di occhi che ci hanno accolto come fossimo casa. Capisco che, pur non avendo quasi nulla, i tokai possiedono qualcosa che molti adulti hanno dimenticato: la forza di restare uniti.
È quell’unione – fatta di abbracci improvvisi, gelati condivisi, danze rispettate, risate che si sostengono – che permette loro di resistere.
Giada
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