Il centro diurno

 Vicino alla stazione dei treni di Khulna, in una piccola via disseminata di piccoli bar-baracchini e di mucche, si trova il piccolo centro diurno per i tokai.

Ci aspettano sbirciando dall'ingresso e come scorgono Padre Lupi si tuffano tutti, 30 o 40 è impossibile definirne il numero visto che sembrano sbucare da ogni pertugio, tra le nostre braccia. Urlano uno slogan di benvenuto, sembrano piccoli rivoluzionari vestiti di stracci dai mille colori all'assalto di qualche fortezza. Penso agli scritti di Riccardo in cui sosteneva che la cosa fondamentale non è emanciparli dalla povertà, ma riparare lo strappo dell'abbandono e ridare dignità alla loro condizione di tokai. Sono bambini e bambine che hanno imparato a sopravvivere in autonomia già da molto piccoli, hanno costruito una loro tribù in cui si proteggono e hanno occhi vivaci, curiosi e intelligenti. Hanno infinite potenzialità tra le infinite ferite che la vita gli ha inflitto. Ridono forte, mi infilano le mani nei capelli, vorrebbero tutti farsi prendere in braccio. Sono irruenti e gli abbracci rischiano di trasformarsi in rovinose cadute per terra. 

Il centro diurno è una piccola costruzione a ferro di cavallo, con un unico piano terra, è fatto di mattoni e le pareti sono di un azzurro vivace. Il tetto è fatto di lamiere. Ci sono tre piccole stanze: una adibita ad ufficio, una a sala comune e scuola e una a sala da pranzo e cucina. Accanto una stanza con un piccolo wc (chiamarlo così già è forse troppo, in realtà è un buco nel pavimento con due assi di legno che fungono da poggiapiedi) e una sorta di vasca, con un secchio posizionato accanto che si può riempire nella fontana in giardino.

Lo scopo del centro diurno é fornire un pasto al giorno, qualche ora di alfabetizzazione e una prima assistenza sanitaria. Nei periodi dell’anno più freddi alcuni di loro si fermano a dormire per terra, così possono ripararsi dal freddo. 

Il nostro arrivo è una festa, ci mettono le ghirlande attorno al collo e ci trascinano nella sala comune, ci sono dei palloncini e quattro sedie sulle quali ci fanno accomodare. Oli, il tokai cresciuto da Riccardo che ora ha 40 anni e gesisce il centro insieme alla moglie, fornisce loro musica e un microfono. Iniziano a fare balletti e cantare canzoni, vibrano di gioia. Le loro infinite potenzialità. Ogni essere umano nasce portando con sé l’unicità della propria esistenza, gettato in un mondo che deve imparare a comprendere. I tokai sembrano essere destinati a sopravvivere più che a dar forma al proprio essere e le loro infinite potenzialità finiscono per essere sepolte dagli abusi, dalle fatiche fisiche e dagli stracci che indossano. Ma nei loro occhi e nei loro gesti rimangono ben visibili. In tutti questi anni non ho mai provato pena, il loro vigore mi travolge e la loro vitalità mi contamina. Mi sento che sono io, ormai vecchia signora occidentale, ad avere un ritorno maggiore dal partecipare almeno un poco alla loro esistenza.

La nostra giornata prosegue tra giochi e abbraccia. Mattia li sfida a scacchi, utilizzando il linguaggio universale del gioco: mancano molti pezzi ma riescono a trovare dei nuovi simboli per le torri mancanti, la regina e qualche pedone. Andiamo poi tutti insieme in un prato che rimane dietro il centro: ci sono delle porte improvvisate, più gruppi giocano a calcio contemporaneamente finendo per scambiarsi le palle e due mucche quiete attraversano il campo di gioco.Mattia, ormai guarito, si butta nella mischia. Un ragazzino si arrampica sull’albero per offrirci del tamarindo acerbo.

Noi ripartiamo, tra baci e abbracci, una lunga doccia ci attende al rientro alla casa dei saveriani. Saliamo nella zona comune, chiacchieriamo con Alexa, un’infettivologa che è in Bangladesh per un paio di mesi, per aiutare, per fare esperienza con tbc e lebbra.

Quante storie si intrecciano alla nostra, in questo piccolo e bizzarro paese. 

Evita


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