Un sogno che si realizza
Siamo arrivati. Finalmente.
Scrivo queste righe con ancora addosso l’emozione dell’atterraggio, come se la realtà non avesse ancora fatto in tempo a raggiungermi. Questo viaggio lo desideravo da anni, ma solo ora mi rendo conto di quanto mi servisse davvero. È come se avessi superato una soglia dentro di me: le paure, i limiti, tutti quegli “non ce la farò” che mi ripetevo… sono rimasti a casa.
Sono qui. E ce l’ho fatta.
Ripenso spesso a quanta fortuna ho avuto ad incontrare Evita. È impossibile non pensarlo ogni volta che trascorro del tempo con lei. Per me è un dono, uno di quelli che senti che la vita ti mette tra le mani quando vuole farti un regalo.
Siamo atterrati venerdì mattina e fin da subito l'impatto è stato notevole e immediato: tre ragazze occidentali in mezzo a un mare di bengalesi appena sbarcati. Eppure, tra le mura povere dell’aeroporto e un minuscolo infopoint, quello che ho sentito più forte è stato un senso ospitalità, gentilezza. Un calore umano che ti toglie ogni possibile diffidenza.
Arriviamo da Denise e Gaetano, amici di padre Riccardo. Di lui avevo sentito tantissimi racconti da Evita, e sapevo che questa tappa era quasi una tradizione in questi viaggi in Bangladesh. Seduti attorno al tavolo, mentre loro si preparano per andare al lavoro, riscopro il piacere semplice di una conversazione vera.
Nei discorsi “lo zio Riccardo” è ovunque. È come se fosse lì con noi, seduto sulla quarta sedia. Lo sento vicino in un modo difficile da spiegare.
A un certo punto, Gaetano si commuove mentre parla di lui. Lo descrive come un uomo capace di capire chiunque, una persona meravigliosa. Non trattiene le lacrime.
E io mi emoziono, come sempre, ma con una consapevolezza nuova: è come se anch’io avessi conosciuto Riccardo, anche se non è così. Dai loro racconti, dal modo in cui parlano di lui, sembra ancora vivo nelle sue intenzioni, nelle sue azioni, nei ricordi che si toccano quasi con mano.
Prima di andare a dormire fumiamo una sigaretta sul balcone.
C’è odore di smog, l’aria è pesante ma pulsante di vita. Sotto di noi, tra i topolini che attraversano le fognature, un gruppetto di ragazzini ride e corre.
Di fronte, una finestra illuminata: un uomo e un ragazzo che parlano, il giovane scrive. Mi chiedo se stiano studiando insieme. Rimango lì a guardare, a captare ogni dettaglio di questo mondo così diverso, che ancora non conosco ma che mi attira come una calamita.
La mattina dopo ci alziamo e dopo una ricca colazione offerta da Gaetano e Denise ci dirigiamo verso il mercato di Dacca, scortati e accompagnati da un autista.
Inizia la prima conoscenza di Dacca costituita dai clacson costanti delle auto che pervadono ogni angolo della città. Il rumore dei clacson è continuo, come un linguaggio fatto solo di intenzioni e comunicazione tra i guidatori. Mi dicono che essendo sabato il traffico è ridotto. Guardo fuori dal finestrino e penso che, se questo è “poco”, non so se sono pronta per il “molto”.
Il mercato è il primo vero tuffo nella città.
Io amo i mercati: sono la parte più viva di un luogo, il posto dove si capisce davvero come respira una comunità. Ma appena scese dall’auto mi sento investita da decine di sguardi. Tre donne occidentali, bianche, nel mezzo di un mercato bengalese.
“Hello! Madame!” da ogni direzione. Mi sento a disagio e osservata.
Camminiamo tra i banchi di frutta e verdura, che esplodono di colori. Poi quelli del riso, mille tipologie.
E poi… la parte più forte: carne e pesce. L’odore è pungente, quasi violento. Pezzi di mucca appesi, zoccoli che dondolano, cesti pieni di galline vive ammassate. Mi sembra un mercato medievale.
Arriviamo alla zona degli “stracci”, come li chiama padre Pier, il Saveriano che ci accompagna in questo viaggio così incredibile.
Le stoffe sono magnifiche, un tripudio di colori che quasi stordisce. Ne scelgo due. I venditori, gentili e sorridenti, insistono per offrirci tre bibite prima di lasciarci andare.
Sulla strada verso la macchina, bambini che ci inseguono chiedendo soldi. A pochi metri dall’auto arriva una ragazza giovanissima con un neonato in braccio. Regaliamo a loro le bibite.
Il sorriso del bambino con la sua coca cola in mano… è una delle prime immagini che mi si è stampata nella mente.
Ho pensato: questo è solo l’inizio.
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